La dimensione geopolitica della corsa alle terre rare
Le terre rare sono 17 elementi chimici della tavola periodica classificati come metalli, ovvero Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio. La loro importanza strategica deriva soprattutto dal loro massiccio utilizzo nell’industria dell’elettronica di consumo, che comprende smartphone, tablet, computer, ma anche televisori ed elettrodomestici, nel settore medico, dove vengono impiegate nei trattamenti di alcuni tipi di cancro e nella ricerca scientifica, e nell’industria della difesa, dove vengono usate per la costruzione di sistemi radar, sonar, laser e di guida. La loro importanza è connessa non solo alle intrinseche proprietà fisiche e chimiche, ma anche alla capacità di alterare quelle di altri minerali e di aumentare lo spettro delle loro applicazioni tecnologiche.
Nel contesto delle trasformazioni economiche contemporanee, orientate e guidate dallo sviluppo dell’high tech e dal tentativo di ottenere il primato globale nell’innovazione tecnologica, la domanda delle terre rare e dei metalli (ferrosi e non ferrosi) utilizzati nell’industria di riferimento è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, rendendoli preziosi e di interesse geostrategico. La Banca Mondiale prevede un ulteriore aumento della domanda di terre rare, trainata soprattutto dalla transizione energetica verso fonti rinnovabili e pulite. Infatti, ad esempio, lo sviluppo delle nuove automobili ibride e delle tecnologie per la produzione e sfruttamento dell’energia solare ed eolica non può prescindere dall’uso di questi metalli.
Al contrario del loro nome, le terre rare sono piuttosto abbondanti, presenti in maggiori quantità di altri minerali ferrosi e non ferrosi come, per esempio, rame o nichel. Tuttavia, a renderle effettivamente “rare” è sia la loro distribuzione geografica che il processo di estrazione ad alto impatto ambientale. Infatti, allo stato naturale i 17 elementi chimici si trovano mescolati con altri minerali in diverse quantità, e devono quindi essere separati. Tuttavia, per poter separare i metalli sono richiesti acidi e solventi organici che risultano essere dannosi per il contesto ecologico, sia per le emissioni di CO 2 che vengono prodotte durante l’estrazione, ma anche per le scorie radioattive e chimiche che vengono rilasciate nell’ambiente. Inoltre, vengono impiegati metodi di estrazione differenti in base al tipo di concentrazione dei minerali, con conseguente applicazione di tecnologie e know how specifici al tipo di metallo che si vuole estrarre. Il processo di lavorazione, che comprende la raffinazione e la purificazione dei metalli, avviene in più fasi di miscela e filtraggio che richiede tempi lunghi e strutture adeguate, le quali sono presenti per la maggior parte in Cina.
La maggior parte dei giacimenti di terre rare si trovano in Cina, che possiede circa un terzo delle riserve mondiali, seguita da Vietnam e Brasile, Russia, India, Australia, Groenlandia e Stati Uniti. Al momento, la Cina è l’indiscusso leader del settore, del quale controlla circa il 90% della produzione totale mondiale, sfiorando livelli monopolistici. Il primato cinese è dovuto a più fattori, come la presenza sul suo territorio dei metalli, le leggi meno stringenti sulla salvaguardia dell’ambiente ed il diffuso know how di lavorazione.
La Cina ha iniziato a farsi spazio nel mercato globale delle terre rare a partire dagli anni ’80, quando il Governo ha cominciato ad investire a favore dello sviluppo di tecnologie atte alla ricerca ed estrazione dei minerali dalle miniere. Avvantaggiata da un costo contenuto della manodopera e leggi flebili sulla tutela dell’ambiente, Pechino è stata presto in grado di soddisfare la domanda mondiale di terre rare ad un prezzo ridotto, guadagnandosi la supremazia della produzione globale dal 2010. Lo sviluppo cinese di un’efficiente industria di raffinazione ha trasformato Pechino nel principale hub globale nel trattamento dei metalli, anche di quelli estratti in altre parti del mondo da società non cinesi, ed ha contestualmente scoraggiato altri Stati nell’investire nel settore, tanto che in molti hanno optato per l’importazione dei metalli piuttosto che la loro diretta produzione.
Tuttavia, il monopolio permette a Pechino di usare il commercio delle terre rare anche come arma geopolitica. Nel 2010, per esempio, la Cina ha bloccato gli export di mirali trattati verso il Giappone come forma di ritorsione verso Tokyo, dopo che questo aveva arrestato il capitano di una nave cinese che navigava nelle acque adiacenti le isole Senkaku nel Mar Cinese Orientale, ufficialmente parte del Giappone ma rivendicate dalla Cina La mossa mirava a mettere in crisi le industrie di Tokyo, in particolare quelle del settore elettronico altamente sviluppate ma fortemente dipendenti dall’import di terre rare. Il Giappone ha effettivamente risentito dei tagli nel breve periodo, ma ha reagito diversificando le sue fonti di rifornimento, allontanandosi di fatto dall’orbita della dipendenza cinese, passata dal 91 al 58% negli anni successivi alla crisi.
È possibile che quanto successo nel 2010 al Giappone possa accadere anche ad altri Paesi che condividono la medesima vulnerabilità economica nei confronti della Cina, come ad esempio gli Stati Uniti. Infatti, l’80% del fabbisogno statunitense di terre rare è al momento soddisfatto dall’import cinese. Solo di recente Washington ha deciso di prendere delle misure per allontanarsi dall’ombra di Pechino, spaventata da una possibile interruzione della supply chain dell’industria elettronica dopo che la Cina aveva velatamente minacciato ritorsioni a causa della guerra commerciale ingaggiata dagli Stati Uniti.
Le terre rare sono di fondamentale importanza per lo sviluppo economico e tecnologico statunitense, nonché di interesse strategico per l’industria della difesa. Di fatto, la difesa americana dipende pesantemente da questi metalli, impiegati ad esempio nei laser, nei droni, nel sistema di guida missilistica, nelle attrezzature di comunicazione e nelle componenti dei motori a reazione e dei missili, per citarne alcuni. Per questo motivo, il Dipartimento di Difesa e quello dell’Energia hanno iniziato a finanziare programmi di riciclo e di estrazione domestica sperando di rafforzare la capacità nazionale di lavorazione delle terre rare, in modo tale da poter svolgere il processo di raffinazione in casa e sganciarsi al tempo stesso dalla dipendenza cinese. Nei mesi scorsi, per esempio, il Pentagono ha annunciato un finanziamento a favore della compagnia privata MP Materials che controlla la miniera californiana Mountain Pass, l’unica fonte attiva di terre rare in America, per permetterle di intensificare l’estrazione dei metalli. Inoltre, lo scorso anno è stato stretto un memorandum d’intesa tra la Lynas Corporation, compagnia australiana di lavorazione di terre rare con una raffineria in Malesia, e la società texana Blue Line Corporation, al fine di avviare la costruzione di un impianto di trattamento delle terre rare in Texas.
La quasi totale dipendenza cinese rende esposti gli Stati importatori alla variazione di prezzo delle terre rare. Un esempio si è avuto nel 2010, quando il Governo cinese ha iniziato a diminuire gli incentivi statali alle imprese esportatrici fino a ridurli quasi del 40%. Di conseguenza, l’esportazione si è progressivamente ridotta, facendo impennare vertiginosamente i prezzi globali delle terre rare, che sono passati da 9,46 dollari a tonnellata nel 2009 a 66,96 dollari a tonnellata nel 2011, mettendo in crisi le industrie tecnologiche americane, giapponesi ed europee. Le esportazioni sono state disincentivate per favorire la crescita della produzione interna di prodotti di alta tecnologia, un settore su cui Pechino investe massicciamente. Lo scopo cinese sarebbe quello di raggiungere l’autosufficienza e la supremazia tecnologica, obiettivo ribadito dal programma Made in China 2025 annunciato nel 2015 e ottenibile anche grazie lo sfruttamento delle terre rare presenti sul territorio nazionale. Di fatto, la domanda interna per questi metalli, spronata dalla produzione elettronica di consumo, è cresciuta sensibilmente.
La possibilità che Pechino possa ulteriormente diminuire l’export di terre rare per favorirne un uso domestico, potrebbe aprire la strada a fornitori alternativi di materie prime. È proprio su questo solco che la Russia parrebbe volersi inserire. Pur essendo il quarto Paese per riserve di terre rare, Mosca produce solo l’1,3% dell’output mondiale. Tuttavia, ad agosto è stato annunciato un piano di investimenti pari a 1,5 miliardi di dollari che permetterebbe al Cremlino di incrementare la produzione fino al 10%, target che vorrebbe raggiungere entro il 2030 e che gli consentirebbe di divenire il secondo produttore mondiale di terre rare.
Parimenti occorre visionare con attenzione anche le azioni dell’Australia, che nel corso degli ultimi tre anni è riuscita a raddoppiare la produzione grazie anche alla Lynas Corporation, la quale estrae i metalli dal sito minerario australiano di Mount Weld per poi raffinarli nel suo impianto di trattamento in Malesia.
Tuttavia, il solo sfruttamento delle terre rare presenti in patria potrebbe non essere sufficiente a raggiungere gli ambiziosi obiettivi cinesi e potrebbe spingere la Cina ad investire anche in impianti strategici esteri, come quelli africani dove già è in larga parte presente. Negli anni, Pechino ha stretto numerosi accordi con in Paesi africani per assicurarsi un flusso stabile di terre rare e minerali per l’industria hich tech. Ad esempio, è presente in Mozambico, Madagascar in Guinea, nella Repubblica Democratica del Congo e in Malawi dove estrae minerali che poi vengono processati nelle strutture domestiche.
La corsa all’approvvigionamento minerario africano e il rafforzamento nel mercato globale delle terre rare non riguarda soltanto Pechino, bensì coinvolge anche Mosca e gli Stati Uniti e potrebbe segnare, nel prossimo futuro, il trend di nuove faglie di rivalità geopolitica internazionale in Africa.
Infatti, Mosca ha aumentato il grado della propria presenza in Africa proprio nel settore minerario. Ad esempio, imprese russe sono presenti in Madagascar, in Zimbabwe, dove è presente un’enorme riserva di platino e dove si stima vi sia anche un grande giacimento di Cerio e Lantanio.
Al tempo stesso, anche gli Stati Uniti hanno iniziato a guardare al continente africano per assicurarsi un approvvigionamento duraturo delle terre rare. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno avviato una serie di negoziazioni, in particolare con Burundi e Malawi, per potersi assicurare i diritti di estrazione e farsi spazio in questo mercato.
Altri Stati ed organizzazioni hanno iniziato a muoversi in Africa per potersi assicurare una linea diretta di fornitura delle materie strategiche. La stessa Unione Europea, che importa il 98% del suo fabbisogno di terre rare dalla Cina, ad inizio settembre ha reso pubblico il Piano di Azione per aumentare l’autonomia strategica e diminuire la sua dipendenza da Pechino. Oltre a incoraggiare progetti di riciclo, la Commissione Europea si è detta favorevole ad aumentare partenariati strategici con i Paesi africani così da assicurare all’Unione una diversificazione dell’approvvigionamento dei minerali strategici.
L’importanza incrementale delle terre rare e dei minerali per l’industria tecnologica nel prossimo futuro potrebbe determinare in maniera decisiva alcune tendenze politiche, economiche e securitarie internazionali nel prossimo futuro. Infatti, il posizionamento all’interno del mercato globale dei minerali per lo sviluppo dell’high tech appare fondamentale sia per la promozione ed il sostegno dell’industria ad alta tecnologia nazionale sia per condizionare le capacità tecnologiche degli altri Stati competitor.
Oggi, la Cina appare disporre ancora di una posizione privilegiata e dominante, garantita dalla ricchezza dei giacimenti nazionali, dall’efficienza dell’industria di raffinazione delle terre rare e dalla presenza in Africa. Nel breve e medio periodo è difficile immaginare una significativa perdita del primato cinese in questo comparto dell’economia. Per Pechino le terre rare sono una questione di sicurezza nazionale e la base rinunciabile per i progetti di trasformazione economica del futuro.
Anche la Russia, nonostante non disponga della potenza di fuoco cinese nel settore dell’alta tecnologia, vuole sfruttare il proprio expertise nell’industria mineraria per affiancare Pechino quale attore preminenti nel mercato delle terre rare. Mosca, esattamente come Pechino, intende sviluppare una strategia a doppio binario basata sulla promozione e sullo sviluppo tanto delle ricchezze nazionali quanto di quelle africane.
Se Russia e Cina riuscissero, complessivamente, ad assorbire e controllare la maggior parte delle risorse strategiche per lo sviluppo tecnologico, gli altri Paesi potrebbero trovarsi nella svantaggiosa situazione di subire la vulnerabilità da dipendenza esterna, come già avviene, per esempio, nel campo dell’energia tra Stati produttori e Stati importatori. In questo contesto, non è assolutamente da escludere che Russia e Cina possano decidere di “militarizzare” le terre rare ed usarle come strumento di pressione politica e deterrenza economica, come avvenuto nel caso, per esempio del gas in Europa o delle terre rare in Giappone.
E’ proprio la necessità di evitare questo scenario che ha spinto Stati Uniti ed Unione Europea ad avviare una riflessione critica sulla diversificazione delle forniture di terre rare, aumentando l’attenzione verso le opportunità e le risorse africane. Tuttavia, Mosca e Pechino sono presenti nel continente africano già da tempo e, verosimilmente, non vorranno dilapidare il vantaggio acquisito,
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